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Associazione Mosaico per un Comune Avvenire - Trieste Commercio Equo e Solidale - Fair Trade
 

di Francesco Padovan, 29 agosto 2012

Passati cinque anni di crisi, è ormai opinione comune che il sistema finanziario sia il maggiore responsabile dei tempi difficili che stiamo vivendo. All’estero appaiono più indecisi, e continuano a credere che la crisi europea sia da attribuire in gran parte ai difetti greci ed italiani. Ma ormai anche in America si fa strada l’idea che trent’anni di sistematica deregolamentazione finanziaria, iniziata con Reagan e promossa dal premio nobel per l’economia Milton Friedman e la sua Scuola di Chicago, non siano stati poi una così buona idea. Nei summit europei, il dibattito è sempre più acceso. Nel susseguirsi ormai continuo di critiche e condanne, non dobbiamo però cadere nell’errore di condannare tutto il sistema finanziario in sé. L’atto di prestare denaro, anche a tasso di interesse, è invece un’attività che risale alla notte dei tempi e che ha contribuito allo sviluppo della nostra cultura: ci piaccia o meno, le banche saranno sempre necessarie, almeno se vogliamo continuare a vivere secondo gli standard attuali. Se vogliamo addirittura migliorare la condizione di vita delle popolazioni a Sud e consentire lo sviluppo dei paesi più poveri, la finanza diventa ancora più essenziale nelle sue forme di prefinanziamento e microcredito, strumenti di cui anche il commercio equo fa largo uso. Tuttavia è indubbio che la finanza, così com’è, non va bene, e va profondamente rivista e regolamentata. Al di là dei derivati quindi, la questione più spinosa ma anche la più difficile da affrontare, cos’è che si potrebbe fare per migliorare il sistema attuale?

Innanzi tutto occorre sicuramente ripensare gli stipendi ed i premi che i vertici del mondo finanziario percepiscono, spesso aumentati dalla facilitazioni fiscali di cui godono. Riguardo a ciò lo stesso Warren Buffett, ora primo azionista di Coca Cola e terza persona più ricca del mondo, ha più volte ripetuto che le agevolazioni di cui gode sono, parole sue, un’ingiustizia. Gli investimenti finanziari, anche speculativi, sono la fonte di reddito meno tassata: sui cosiddetti capital gains, i guadagni originati dalla differenza fra il prezzo di vendita e quello di acquisto di un titolo, la tassa in Italia è del 20%; non vi sono invece tasse sulle operazioni di compravendita di titoli. Il confronto con l’economia reale è impressionante: per ciascun dipendente un imprenditore versa in tasse e contributi un importo circa pari allo stipendio netto. Vale a dire che il costo del lavoro per un imprenditore risulta il doppio della retribuzione percepita dal lavoratore. Con una situazione del genere, gli investimenti finanziari risultano inevitabilmente i preferiti, e tutta l’attività manageriale finisce quindi per concentrarsi sull’economia finanziaria, a discapito di quella reale!

Un secondo problema con cui ci troviamo ormai ad avere a che fare sono i volumi delle operazioni finanziarie: essi sono ormai decine di volte quelli dell’economia reale, anche per l’uso di derivati e del trading ad alta frequenza, ossia l’uso di programmi informatici per comprare e vendere titoli ed azioni ogni secondo. Ciò è ormai diventato una prassi che distorce il sistema permettendo ogni genere di speculazioni. Proprio per questo si fa sentire molto l’esigenza di una nuova tassa, sul genere di quella proposta dal premio Nobel James Tobin quarant’anni fa. La tassa, se applicata, scatterebbe ogni volta che qualcuno compra o vende un prodotto finanziario, andando così a colpire non solo i guadagni ottenuti ma il valore di tutte le transazioni, comprese quelle in perdita. Si obietta che ciò, rendendo più difficile ogni tipo di transizione, anche quelle non speculative, finirebbe per paralizzare il mercato e colpire anche l’economia reale, bloccando investimenti a progetti utili e significativi. Proprio per questo però la Tobin tax è stata concepita già all’origine come molto piccola. Una tassa dello 0,05% o dello 0,01%, ad esempio, risulterebbe quasi insignificante per chi fa investimenti importanti nell’economia dei beni tangibili: il dover pagare, su 100.000 euro, lo 0,05% in più, ossia 50 euro, non bloccherà certo una famiglia o un’impresa dal finanziarsi in banca per l’acquisto di un appartamento o di un macchinario. Viceversa la tassa diventa un problema per chi scambia ogni minuto, addirittura ogni secondo, piccole e grandi quantità di denaro. Gli effetti della tassa in questi casi si sommano, scoraggiando gli speculatori. La Tobin Tax non ridurrebbe quindi gli investimenti nell’economia reale, ma sarebbe un deterrente verso la speculazione e gli scambi ad alta frequenza gestiti automaticamente dai computer. Verrebbe così posto, finalmente, un “limite di velocità” alle borse ed ai mercati virtuali.

Un’obiezione che si muove molto spesso alla Tobin Tax è che essa, per essere efficace, andrebbe applicata a livello mondiale. Altrimenti gli speculatori semplicemente “fuggirebbero” dal paese che la applica per spostarsi su altri mercati, dando vita ad una fuga di capitali. In realtà “fuggire” da un paese, anche per uno speculatore, non è così semplice, ma è senz’altro vero che, per avere una reale efficacia, la tassa andrebbe applicata quanto meno in tutta l’Europa. Ed è anche vero che ormai i politici sembrano essersi accorti di tale necessità: la Germania si è dichiarata pronta ad applicarla a livello europeo, il nostro governo sembra dello stesso avviso, avendo Monti spostato la posizione italiana da un no incerto ad un sì sempre più deciso. La Francia ha scelto di non aspettare: la tassa è già in vigore da agosto. Solo la Gran Bretagna appare contraria. Una futura applicazione appare ormai quasi come una certezza: resta però da decidere quando.

La Tobin Tax, un maggior carico fiscale sul settore finanziario (per alleggerire quello reale, già così martoriato); e poi tagli agli stipendi degli alti dirigenti della finanza, assieme ad una profonda regolamentazione dei derivati e degli altri strumenti finanziari. Molte sono le cose che si potrebbero fare per migliorare la situazione. Occorre però avere la volontà di farle.

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